Partiamo subito con una precisazione: seguire tutti e sette questi punti dello storytelling transmediale non vi trasformerà magicamente in cinture nere di storytelling. Semmai, vi aiuterà a distinguere fra chi lo fa bene, o almeno ci prova, e chi chiama così un comunicato stampa perché fa figo.
Ma che vuol dire “storytelling transmediale”? Il concetto lo si deve a Henry Jenkins, quello di Cultura Convergente, quello del MIT di Boston, quello della University of Southern California, quello ecc… E per transmedialità, in estrema sintesi, intende la fluidità dei contenuti in diversi media e attraverso forme diverse. Metteteci anche la narrazione, lo storytelling appunto, e avrete un ecosistema narrativo fatto di tanti racconti che creano una sorta di franchise o di serie tv. Solo che a differenza di “Modern Family”, le “puntate” diventano “pezzi”, cioè contenuti che assumono varie forme, video, testo, fumetto, gioco… che vengono spalmate in più canali creando un’esperienza coordinata e raggiungendo pubblici anche diversi.

E allora vediamoli questi 7 passi:
1. Spreadability e Drillability – Un contenuto dev’essere diffondibile, spalmabile, e scavabile. Deve invogliare il pubblico ad approfondire la storia scavando, appunto, nella sua profondità. Si punta cioè sulla capacità del pubblico di selezionare e condividere volontariamente i contenuti in maniera attiva, e non passiva come invece pensano tutti i fantomatici e poco credibili creatori di contenuti “virali”.

2. Continuità e molteplicità – E’ la coerenza del contenuto o di una serie di contenuti che appartengono allo stesso universo di riferimento. Avete presente l’universo Marvel? Ecco. Ma anche la possibilità che questo universo sfoci nella realtà. Un altro esempio: nella serie Breaking Bad, il sito internet che il figlio del protagonista crea per salvare il padre esiste davvero, così come il portale di Pied Piper, da Silicon Valley. La molteplicità invece è legata alla possibilità di contemplare versioni alternative che partono dallo stesso universo: e i fan in questo sono i numeri uno.

3. Immersione ed estraibilità – Date la possibilità al vostro pubblico di entrare nel mondo narrativo. Come? Pensate a Disneyland. E all’estremo opposto concedete e incentivate le pratiche di appropriazione di elementi del vostro mondo. Un esempio su tutti, i gadget.

4. Costruzione di mondi – Tout court, una mappa. Un universo in cui accadono cose, attraverso il quale le persone possono viaggiare e scoprire nuovi territori, nuovi personaggi, nuove storie. Qui il Mago di Oz ha fatto scuola. Insomma, prima create il mondo, poi i personaggi, gli eventi, le cose, e per ognuno create una storia.

5. Serialità – Sta alla base degli spin off, dei prequel, dei sequel. La serialità crea pezzi di storie avvincenti che rimandano le une alle altre, e le disperde nella storia complessiva. Insomma, fabula e intreccio trovano una nuova dimensione nella serie.

6. Soggettività – Un trucchetto per allargare i confini del vostro universo narrativo è quello di osservarlo dal punto di vista dei personaggi minori. Et voilà, da Breaking Bad nasce Better Call Soul (lo so, sono serie da boomer…).

7. Performance – Sta qui la possibilità lasciata ai fan di usare i contenuti e rielaborarli in maniera creativa con l’eventualità che vengano inglobati nell’universo narrativo. Jenkins distingue dunque tra cultural attractors, cioè elementi condivisi intorno ai quali si crea comunità, e cultural activators, cioè elementi che danno a una comunità qualcosa da fare. Ma se siete arrivati a leggere fin qui vi meritate un BRAVO e, per ora, questo dovrebbe bastare.